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Bones 10×03 The purging of the pundit: recensione

Bones 10×03 The purging of the pundit: recensione

Se qualcuno poteva aver mai espresso il timore che la morte di Sweets sarebbe stata presto dimenticata sicuramente questo episodio ha messo in chiaro quale sia la direzione che gli autori hanno deciso di prendere dopo i tristi e sconvolgenti eventi della premiere e dell’episodio che l’ha seguita. Lance Sweets è tutt’altro che dimenticato, dai suoi colleghi, da Booth, dalla sua famiglia putativa.
Quando Rodolfo Fuentes in laboratorio, fa le sue condoglianze ai colleghi per la perdita subita, tutti smettono di lavorare e lo guardano con il dolore negli occhi e le parole di Cam “Possiamo evitare di parlare di Sweets proprio adesso? Se lo facciamo cominceremo a piangere e contamineremo le prove,” mettono ben in chiaro quali siano i sentimenti di tutti e quanto la ferita sia ancora aperta.
Ma chi preoccupa davvero, la persona più segnata dalla morte del suo collega ed amico è proprio Booth ed, in perfetto stile maschio alfa, lui si rifiuta di vedere il problema. I traumi vissuti dall’agente negli ultimi mesi non sono facili da affrontare e Booth non è mai stato il tipo di uomo disposto ad aprirsi e a parlare dei suoi stati d’animo. Non solo non ha più fiducia nell’istituzione per cui lavora da una vita, ma si sente anche responsabile per la morte del suo partner ed il suo rifiuto di accettare Aubrey come possibile sostituto di Sweets non deriva solo da questa perdita di fiducia, ma anche dal fatto che non vuole sentirsi responsabile per la vita di altri che non sia se stesso.
Dopo vari tentativi di Aubrey di rendersi utile e di cercare di convincere il collega di essere degno di poter entrare a far parte del suo team, l’uomo, all’ennesimo rifiuto di Booth, lo affronta a muso duro, dandogli persino dell’idiota, e dicendogli che ogni volta che si prende gioco di lui in realtà manca di rispetto alla capacità di giudizio di Sweets che aveva invece dimostrato di fidarsi di Aubrey tanto da coinvolgerlo nelle indagini per far scagionare Booth. Sebbene quindi la reazione del giovane agente sia forse un po’ sopra le righe (dare dell’idiota al proprio superiore non è probabilmente il metodo migliore per conservare il proprio posto di lavoro), Booth è abbastanza onesto con se stesso e con Aubrey da poter ammettere che le sue parole non sono poi così campate in aria.
E poi c’è l’elemento Brennan, da non sottovalutare mai quando c’è in gioco il benessere di Booth, ed – ancora una volta – l’antropologa riesce, con la sua ferrea logica, a convincere il marito ad accettare l’aiuto di Aubrey ed a non isolarsi ulteriormente e che lei lo faccia rinunciando ad andare sul campo con lui, che era il motivo per cui, in primo luogo, aveva deciso di collaborare con l’FBI, la dice lunga su quanto tenga a Booth e a quanto sia disposta a rinunciare per il bene dell’uomo che ama.

Il caso, che riguardava il presentatore di un programma radio particolarmente aggressivo, coinvolto nel mondo del sadomasochismo, ha quel tanto di ironia nella quale la serie eccelle, da alleggerire l’atmosfera rispetto ai passati episodi che, per quanto intensi, non hanno permesso di iniziare la serie sotto una luce particolarmente allegra. Un aspetto interessante della puntata e che potrebbe scatenare qualche critica da parte dei più attenti spettatori riguarda proprio la natura della vittima ed il suo lavoro. La trasmissione che presentava infatti, altro non era che una serie di rabbiose esternazioni nei confronti di immigrati, persone di colore, in difesa del diritto di possedere un arma e proteggere la propria cultura. Temi molto delicati, decisamente cari ai Repubblicani, ma trattati con evidente ironia durante l’episodio. Hollywood certamente è un mondo liberale, che tende più a proporre argomenti cari alla sinistra americana piuttosto che quelli più prettamente riferiti ai conservatori e sarebbe certamente curioso vedere come questo episodio in particolare possa aver toccato le ferite aperte di una parte del pubblico della serie, soprattutto quando alcuni temi sociali sono, oggi più che mai, territorio di un aspro scontro politico in America.

Bones 10×01 The Conspiracy in the Corpse: recensione

Bones 10×01 The Conspiracy in the Corpse: recensione

Non è facile che uno show riesca, dopo dieci anni, a coinvolgere e sorprendere tanto quanto Bones, eppure la premiere della decima stagione è riuscita nell’intento, lasciando appassionati e spettatori meno assidui senza fiato.

La scorsa stagione era finita letteralmente con il botto tessendo le fila di uno dei più intricati ed interessanti casi che la serie abbia mai affrontato, disegnando i contorni di una cospirazione che ha finito per chiudere Booth in prigione, accusato di aver ucciso tre agenti della stessa istituzione a cui lui stesso ha dedicato tutta la sua intera esistenza, l’FBI.
Tutto il caso è strettamente collegato alla risoluzione del mistero della killer fantasma, Stephanie McNamara, membro della potentissima famiglia. Nell’ultimo episodio della nona stagione, Booth aveva ricevuto una telefonata anonima da un uomo che voleva consegnargli del materiale particolarmente scottante sui McNamara. Con l’aiuto di Sweets, Booth era riuscito a risalire alla sua identità: Wesley Foster era un ex giornalista caduto in disgrazia che aveva raccolto informazioni molto compromettenti sulla potente casata, responsabile di aver corrotto molti personaggi di spicco della politica, della giustizia e del mondo degli affari per favorire i propri interessi, nonché di aver coperto gli omicidi di Stephanie McNamara, pagando una tangente ad una talpa all’interno del FBI, la quale difendeva gli interessi della famiglia.
Quando Booth decide di incontralo, l’uomo viene trovato morto carbonizzato, ma il team del Jeffersonian recupera una serie di dati che l’uomo aveva nascosto all’interno di un piercing, che nascondeva in realtà un cip di computer.Proprio alcuni dei dati inseriti in questo cip saranno ciò che ricollegherà gli eventi della passata stagione a quelli della decima.

Tra i molti nomi ritrovati ricorre infatti con una notevole frequenza quello di un certo Howard Cooper, un uomo morto 16 anni prima – così dice il referto medico – di leucemia. Il team non solo sospetta che l’uomo sia stato ucciso, ma anche che il mistero dietro la sua morte possa essere il punto di origine dell’intera cospirazione che ha portato all’arresto di Booth. Riesumato il corpo, cominciano le indagini con l’aiuto stesso di Booth, uscito di prigione grazie all’intervento, non particolarmente ortodosso, di Brennan.
Mentre gli Squint cercano di provare che la morte di Howard Cooper non era dovuta alla malattia che lo affliggeva, scoprono che l’uomo, che lavorava presso l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e che aveva ricevuto un sospetto numero di promozioni pur non possedendo le qualifiche per ricoprire il suo incarico professionale, è stato ucciso subito dopo aver negato a una certa Sanderson Chemical il permesso di costruire una fabbrica nella baia di Chesapeake.

A questo punto gli attori che sono dietro a questa immensa cospirazione sentono sempre di più il fiato di Booth sul loro collo e tentano il tutto per tutto per fermare Brennan, riuscendo persino a privarla, grazie ad un cavillo legale, dei resti di Howard Cooper necessari per collegare la sua morte a Hugo Sanderson, presidente della Sanderson Chemical.
Grazie ad Hodgins però, che conserva in segreto parte delle ossa, Brennan riesce a provare che Cooper è stato ucciso da un farmaco sperimentale prodotto dalla Sanderson Chemical che ha reagito con i farmaci chemioterapici che l’uomo assumeva al tempo, uccidendolo. La connessione tra Cooper e Sanderson è ormai rivelata e Caroline ottiene un mandato per sequestrare tutta la documentazione dell’azienda legata al farmaco usato come arma del delitto. Quando Booth e Brennan fanno per recarsi presso la sede dell’azienda, Sweets si offre di andare al loro posto, mandandoli a seguire un’altra pista.
Sweets, Booth e Brennan – nonostante l’atteggiamento poco collaborativo e sospetto del direttore del FBI Stark – non sono gli unici convinti della necessità di arrivare in fondo a questo caso e ricevono l’inaspettato aiuto di un giovane agente, James Aubrey, messo dal Bureau alle loro calcagna per seguirne le loro mosse. Nonostante la comprensibile reticenza iniziale di Booth, Aubrey finisce per rivelarsi un prezioso alleato per il team, dimostrando di volere la verità altrettanto quando loro e finendo per farsi levare il caso dallo stesso direttore del FBI preoccupato dalla sua affiliazione a Booth.

Mentre Booth e Brennan vanno infatti ad interrogare un sospetto individuato dall’agente Aubrey e Sweets si reca alla Sanderson Chemical, l’episodio prende una piega completamente inaspettata, perché Booth riceve una telefonata dall’agente Aubrey che gli annuncia di aver risposto ad una chiamata per una sparatoria presso la sede della Sanderson dove, nel garage, trova Sweets a terra, ferito.
Booth e Brennan si recano di corsa sul luogo e trovano Sweets in fin di vita, con un’emorragia interna che non gli lascia scampo.
Sweets riesce a dire loro di essere stato aggredito da qualcuno che gli ha rubato i documenti che aveva appena sequestrato e le sue ultime parole sono rivolte alle persone che ama: a Daisy, incinta di suo figlio – sì, il piccolo Sweets stava per diventare padre – e a Booth al quale dice “il mondo è un posto migliore di quello che tu pensi…” prima di esalare il suo ultimo respiro e lasciare tutti senza parole, Booth, Brennan, Aubrey e noi spettatori, perché con Sweets se ne va uno delle colonne portanti della serie.

Quando i resti di Sweets vengono portati al Jeffersonian, Cam sembra parlare per tutti noi nell’ammettere a Brennan di non sapere se è in grado di fare un’autopsia su di lui, ma la risposta di Brennan è quella che ci si aspetterebbe da una donna come lei, perché, con gli occhi lucidi, di fronte al corpo del suo amico, dice: “Devi. Questo non è Sweets, sono dei resti che ci daranno il nome della persona che ha ucciso Sweets.

Bones è al suo meglio quando riesce a smuovere le corde emozionali del suo pubblico e, volenti o nolenti, questo episodio sconvolge completamente le dinamiche a cui siamo abituati. Al di là dell’intreccio davvero ben congegnato della cospirazione, tutti i personaggi sembrano essere in un posto in cui non li avevamo mai visti prima.
Booth è completamente sconvolto dal tradimento subito ad opera di un’istituzione a cui ha dedicato la sua vita e, come sottolinea Sweets, è alla ricerca di vendetta e non di giustizia.
Brennan è preoccupata per le ferite del suo uomo, quelle dell’anima, non solo del corpo, tanto da condividere le sue ansie con Sweets, almeno lui è morto sentendosi dire da Brennan che, dopotutto, un po’ di logica c’è in quello che la sua amata psicologia dice.
Persino Clark sembra cresciuto, più maturo e deciso nei confronti di Brennan, mentre Hodgins – come spesso capita – finisce per essere la persona che salva la giornata e questa volta, proprio grazie al suo essere considerato un maniaco delle cospirazioni.
Tutto sembra cambiato, ma in maniera armonica, credibile. Anche le ultime immagini dell’episodio, quelle che forse più di tutte sfuggono alla logica, hanno – a mio avviso – un senso più che preciso. E’ normale infatti considerare poco accurato il fatto che proprio loro, da amici, si mettano a fare l’autopsia a Sweets, probabilmente ci sono nella realtà dei protocolli che lo vieterebbero, ma credo che il senso sia quello di mostrare fino a che punto il personaggio contasse per il resto del team, fino a fare una cosa tanto impensabile come effettuare un esame autoptico su di lui per dargli giustizia.
Inaccurato? Probabile.
Spiegabile? Di certo.

Intervistato da US TodayJohn Francis Daley ha parlato così di questa toccante ed inaspettata piega presa dallo show:
Booth e Sweets erano come fratelli, avevano un vero legame, una vera amicizia.” Daley ha descritto la morte del suo personaggio come “un momento difficile” e ha ammesso di aver “pianto come un bambino per un minuto” dopo aver filmato la scena finale, quando Sweets viene chiuso dentro il sacco da cadavere. La scena della morte è stata per lui particilarmente toccante: “Ricordo come girare quella scena abbia ammutolito David [Boreanaz] ed Emily [Deschanel]. Erano molto commessi. Gran parte dei miei venti anni li ho passati in quello show e, fortunatamente, è un’incredibile famiglia. L’ultimo giorno è stato triste e surreale per me.

E’ un modo davvero coraggioso di cominciare una stagione: uccidere uno dei personaggi principali non è mai facile e finisce sempre per scontentare qualcuno, ma in questo caso si comprende come, dopo dieci anni, fosse necessario dare nuova linfa vitale allo show, introdurre nuovi personaggi (l’agente Aubrey), creare nuove dinamiche. Ciò che è certo è che uno show che dopo tanto tempo riesce ancora a coinvolgere così tanto emotivamente, è uno show che sta facendo bene il suo lavoro.
E non è finita qui, perché il prossimo episodio sarà dedicato all’espressione del dolore, alla perdita di un membro così importante della serie ed alla risoluzione di un caso che sembra farsi sempre più complicato.

Bones 10×05 The Corpse at the Convention: recensione

Bones 10×05 The Corpse at the Convention: recensione

Il quinto episodio della decima stagione di Bones si presenta con una struttura leggermente diversa da quella a cui la serie ci ha abituato: invece di scoprire il corpo abbandonato in qualche remoto luogo da uno sfortunato passante, questa volta il team del Jeffersonian si trova infatti a dover risolvere un omicidio presso il Congresso Nazionale di Scienze Forensi a cui è stato invitato.

E’ sempre interessante quando uno show di lunga data come Bones trova il modo di far agire i suoi protagonisti al di fuori dello schema a cui il pubblico è normalmente abituato ed in questo caso la scelta di questo particolare palcoscenico è stata persino più azzeccata, non solo infatti l’investigazione viene iniziata al di fuori del laboratorio, ma tutti quanti sono particolarmente coinvolti nel caso. Brennan perché, invitata come ospite d’onore e speaker al congresso, sente la pressione di dover risolvere rapidamente l’omicidio per provare, ancora una volta, le sue capacità di fronte alla comunità scientifica e Hodgins, in particolare, perché è sospettato dell’omicidio.

Quando infatti il team riesce a identificare i resti seriamente danneggiati della vittima e scopre che si tratta di Leona Saunders, una donna con cui, proprio all’inizio del congresso, l’entomologo aveva avuto una discussione, finisce da subito tra i sospettati. Nonostante nessuno nel team, Booth compreso, creda davvero Hodgins capace di uccidere, l’uomo viene comunque interrogato sul perché del suo scontro verbale con la vittima e lui rivela che la donna, al tempo dell’università, gli aveva rubato i disegni di un progetto da lui concepito, una sorta di naso elettronico da usare sulla scena del crimine per individuare diversi tipi di sostanze chimiche, rivendendolo poi come suo e guadagnandoci sopra ben 4 milioni di dollari. Hodgins racconta a Booth, e ad un meno conciliante Aubry, che Leona lo aveva intercettato al congresso con l’intenzione di far pace con lui, come se nulla fosse successo, ma di aver rifiutato questo tentativo di riconciliazione.

Anche nell’ambito della raccolta delle prove forensi Hodgins torna ad essere un sospettato, ma – nonostante sia di fatto iscritto nel registro degli indagati – lui continua a lavorare al caso, il che — ammettiamolo — è strano. Pur rendendomi conto che lo show non possa ovviamente sempre rispecchiare la realtà, questo tipo di incongruenze lasciano comunque un po’ perplessi. Trovo infatti difficile credere che il sospettato di un omicidio possa continuare tranquillamente a lavorare su un caso di omicidio con il potere di compromettere irrimediabilmente le prove forensi e di conseguenza le indagini stesse. Sarebbe stato probabilmente più credibile che lo scienziato, almeno in questa circostanza, venisse messo da parte, eppure il problema non sembra essere nemmeno preso in considerazione, tranne quando Booth lo porta nella stanza degli interrogatori per chiedergli del suo rapporto con la vittima. In quel caso l’agente dice ad Aubry, e ad Hodgins stesso, di doverlo interrogare per mostrare, se necessario, al Procuratore Distrettuale che l’indagine è stata portata comunque avanti secondo tutti i canoni, ma quando poi Hodgins torna a lavorare sul caso in laboratorio, nessuno sembra preoccuparsi dei problemi legali che questo potrebbe portare in sede di dibattimento, il che è strano, perché normalmente gli autori della serie sono piuttosto attenti a questi particolari.
A prescindere da questa incongruenza, ovviamente viene fuori che Hodgins non è l’assassino, che si rivelerà invece essere un rappresentante/inventore che aveva subito lo stesso trattamento dell’entomologo, a cui  Leona Saunders aveva rubato un’idea vendendola come sua.

Un altro aspetto della puntata che sicuramente avrà reso felici i fan è il ritorno sulla scena di Wendell Bray, lo squintern a cui nella nona stagione era stato diagnosticato un tumore alle ossa con altissima percentuale di mortalità e che torna al Jeffersonian con ottime notizie. Il suo male è infatti in remissione e, avendo il giovane smesso da più di un mese di fare uso di marijuana medica, usata per alleviare gli effetti collaterali della chemioterapia, gli è stato concesso di tornare ad operare al Jeffersonian. Ovviamente tutti i suoi amici si dimostrano entusiasti dei progressi che ha compiuto e proprio quando tutto sembra andare per il meglio accade qualcosa di insolito. Il giovane chiede infatti di potersi assentare qualche ora dal lavoro per potersi recare dal proprio medico quando non fa più ritorno e non risponde alle insistenti chiamate di Cam e di Brennan che cercano di rintracciarlo.

Il team comincia a pensare che possa essere successo il peggio e che Wendell si stia rendendo irreperibile dopo aver ricevuto una brutta notizia dal proprio medico curante, quando Booth riceve una chiamata e si reca ad incontrarlo al Founding Fathers. Lì Wendell gli rivela che un membro del gruppo di sostegno di cui fa parte, affetto anche lui dallo stesso tipo di tumore, è morto pochi giorni prima. E’ piuttosto chiaro il perché Wendell possa dimostrarsi tanto scoraggiato dalla notizia, proprio quando tutto sembrava andare bene, viene messo di fronte al fatto che una persona che, appena un mese prima, sembrava stare bene quanto lui adesso, è morta nel giro di poco tempo. La risposta di Booth a questa paura è piuttosto decisa, ma altrettanto comprensibile. Booth capisce infatti che non è il momento di discorsi di incoraggiamento e di pacche sulle spalle, ma che Wendell necessita di altro, per questo motivo gli racconta di aver perso in guerra ben 12 dei suoi compagni di pattuglia proprio di fronte ai propri occhi e quando il giovane fa per interromperlo dicendogli di aver capito cosa lui intenda, Booth gli dice di non voler andare a parare dove lui pensa, spronandolo di fatto a smetterla di piangersi addosso e di combattere piuttosto per se stesso e per le persone che lo sostengono e gli vogliono bene perché, gli dice, lui ha già visto fin troppi compagni andarsene via e non intende ripetere l’esperienza anche con lui. Il che è un approccio particolare, ma molto umano e credibile alla reazione di Wendell, il cui rapporto di fiducia e di amicizia con Booth, continua a rivelarsi molto profondo e bello da vivere in quanto spettatori.

La prossima settimana sarà invece la volta di un caso particolarmente coinvolgente che affronterà il problema della tratta degli esseri umani, in uno di quegli episodi emotivamente coinvolgenti che solo Bones riesce a produrre.

Carnival Row: la recensione della prima stagione della serie originale di Amazon Prime Video


Ci sono alcune serie per cui l’aspettativa è davvero alta, tanto che quando arrivano – e deludono – il disappunto è acuto. Carnival Row, nuovo contenuto originale di Amazon Prime Video, con protagonisti Orlando Bloom e Cara Delevingne, era entrata nella nostra top ten delle serie più attese di questo 2019, aiutata anche da una entusiasmante “experience” vissuta al San Diego Comic-Con ed un panel davvero coinvolgente, ma ciò che abbiamo visto è purtroppo lontano da quello che ci aspettavamo da questo show.

La serie rende omaggio allo steampunk, un genere narrativo fantasy ambientato nell’era vittoriana, ispirato ai romanzi di Conan Doyle e H. G. Wells, ed uno dei suoi punti di forza, probabilmente il suo più grande punto di forza, è rappresentato proprio dai bellissimi costumi della costume designer Joanna Eatwell e dalla sontuosa scenografia, due elementi, che – a volte persino più della storia stessa – contribuiscono ad aiutare lo spettatore ad immergersi nell’atmosfera dello show.

I motivi per cui a questa serie mancano gli strumenti per essere il successo che sulla carta avrebbe potuto essere, sono, a nostro avviso, legati all’accidentato percorso che ha compiuto per giungere sui nostri schermi. Carnival Row nasce infatti, con il titolo di A Killing On Carnival Row, da un’idea di Travis Beacham come spec script per un film che è stato poi opzionato da Amazon nel 2015 per farne una serie televisiva; legati al progetto erano inizialmente nomi come quello di Guillermo del Toro, che avrebbe dovuto collaborare con Beacham alla stesura del copione e René Echevarria. In quattro anni le cose sono però cambiate e sia il premio Oscar del Toro, che Echevarria sono usciti di scena, il primo per conflitti causati dai suoi molti impegni, il secondo rinunciando alla produzione e lasciando il suo posto a Marc Guggenheim pur rimanendo nei crediti come co-creatore del progetto. E così Carnival Row, che avrebbe dovuto essere un terreno fertile per Guillermo del Toro, del quale sono note la passione per i film horror e per i mostri, la cui celebrazione è per il regista una critica ai perfetti standard richiesti dalla nostra patinata società moderna, ha finito per perdere parte della sua anima con la defezione del filmmaker, una perdita che è tangibile nell’arco della storia narrata negli 8 episodi della prima stagione e che, pur avendo una morale, manca in qualche modo di sentimento e di sincerità.

E’ evidente come alla base di questo sontuoso racconto ci sia anche l’intento a lungo andare di costruire una mitologia fantastica dal sapore quasi tolkieniano: nell’arco della stagione vengono spesso fatti nomi di strane creature o di luoghi incantati, come la terra di Tirnanoc, costituita da diversi regni, luogo di origine della Fate, ma non sempre ci si sofferma a spiegare allo spettatore la natura o l’origine di tutto ciò, come se lo scopo fosse quello di promettere un chiarimento o un nuovo racconto più avanti nel tempo oppure, appunto, come se la storia stessa mancasse di qualcosa di essenziale, che è andato perso focalizzandosi su qualcosa di molto più semplice ed in un certo senso banale.

Protagonisti di Carnival Row sono Rycroft Philostrate, detto Philo (Orlando Bloom) e la fata Vignette Stonemoss (Cara Delevigne).
Il primo è un ex soldato, divenuto poliziotto della città di Burgue, con il compito di indagare su una serie di spaventosi omicidi dal sapore ritualistico che coinvolgono sia umani che creature, ma questo non sarà l’unico mistero che il bello e tormentato Philo dovrà risolvere nel corso della stagione, perché l’uomo, assieme all’assassino, dovrà anche dare la caccia al segreto del suo passato e della sua stessa origine.
Vignette è invece quella che potremmo definire la vera eroina d’azione della storia: una fata fuggita dalla sua terra devastata dalla guerra, dopo essersi innamorata di Philo ed averlo creduto morto in battaglia. Giunta a Burgue, dopo il naufragio della nave su cui aveva comprato un passaggio, la coraggiosa Vignette si trova a doversi adattare ad un mondo nel quale le creature come lei sono considerate degli invasori, sfruttate dagli umani e generalmente viste come essere inferiori. Non è un mistero che l’intero show sia un’allegoria dell’attuale situazione politica americana e la cosa potrebbe o non dovrebbe disturbare se non fosse eseguita in generale con la mancanza di nuance che invece manifesta.

Un mistero stile Jack lo Squartatore, un racconto di mostri, una denuncia sociale e del fallimento di una certa politica gretta e razzista, un romanzo epico, una storia fantasy steampunk e quella di due sfortunati amanti: Carnival Row cerca di essere talmente tante cose insieme che finisce per non esserne nessuna in particolare. Persino quella che dovrebbe essere ricordata come un’indimenticabile storia d’amore non decolla mai veramente, Bloom e Delevigne sono così impegnati a rendere credibile la storia dei loro singoli personaggi, da dimenticare per lo più di creare tra loro un po’ di magia (e per uno show come questo è una grave mancanza) con un’autentica e tangibile alchimia di coppia.

Nonostante questa ferma critica, la serie ha delle ambientazioni davvero mozzafiato e gli va data una possibilità anche solo per questo, considerato poi che lo show è stato già rinnovato per una seconda stagione e che per come si interrompe la storia, il prossimo anno potrebbe aspettarci qualcosa di completamente diverso, non vogliamo abbandonare la speranza che Carnival Row ritrovi la strada, ne scelga una e la percorra in gloria fino alla sua conclusione.

Gli 8 episodi della prima stagione di Carnival Row sono disponibili su Amazon Prime Video dal 30 agosto.

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